Ho appena finito di leggere "Romanzo interno" di Virgilio Lilli (Ed. Rusconi, 1976).
Un bellissimo libro di cui consiglio la lettura; e riporto qui di seguito la quarta di copertina.
Virgilio Lilli alla sua morte ha lasciato questo romanzo inedito e incompiuto, in realtà compiutissimo. Avrebbe dovuto intitolarsi Autobiografia. Memorie di un figlio del secolo ventesimo. Si chiama invece Romanzo interno perché narra della vita solo la parte più nascosta e profonda. Il manoscritto si ferma sui trent'anni ma il senso dell'esistenza che se ne ricava è pieno. Giunto sui settant'anni Lilli sentì il bisogno di raccontare la sua esistenza, ma il suo istinto, portato prima all'analisi sottile e quindi alla sintesi più ampia, lo indusse a scartare gli avvenimenti comuni e a puntare invece su quelli del profondo, che uniscono tutti gli uomini e li rendono fatalmente compagni dello stesso viaggio. Ricavò un romanzo con forte tensione filosofica e saggistica, ma nello stesso tempo personalissimo; uno scavo, un tunnel attraverso la vita di ogni giorno, un lungo cammino alla luce di un'ideale lanterna di Diogene con cui cogliere l'Uomo. Gran viaggiatore e giornalista Lilli; e anche questo, in fondo, è viaggio e inchiesta, con proficua raccolta di materiali e con forte suspanse. Se i personaggi incontrati tendono a dissolversi in un'idea, un personaggio alla fine emerge, alto e imponente, ed è la vita stessa con le sue leggi, che l'autore cerca di decifrare, e i suoi misteri, che rimangono solenni davanti a noi. Scrive Claudio Marabini nella prefazione: "Tutto si compone via via come una progressiva definizione di sé e della vita intesa come generale avventura, essenza comune. Noi sappiamo che questa definizione, a chi non possegga le chiavi di una fede religiosa, non si esaurisce mai. Può essere disperazione, ma all'uomo stoicamente consapevole dei suoi limiti e delle sue forse, può bastare, meta eternamente sfiorata e mai raggiunta, ogni volta balenante più in là."
Riporto inoltre questo bel passo di scrittura in descrizione di una donna che aveva fatto innamorare il protagonista.
Questa figura di donna, sì, c'era, stava al balcone, era bionda, forse giovane; ma senza il transfert che inconsciamente io facevo in lei della mia urgente, irrinunciabile esigenza del sublime, non sarebbe stata che un fantasma steso al sole, al davanzale di una finestra, come un lenzuolo messo ad asciugare. Gli occhi di pervinca, la bocca di papavero, il collo di Modigliani ed altro, capaci di scatenare in me la "tempesta della felicità" al punto da farmi affermare che nessuna creatura vivente prima di me avesse potuto registrare una simile sensazione, erano una scadenza precisa, celeste, come la scoperta della morte, del sesso, della storia eccetera, di cui ho già parlato.
E riprendo un passo di grande attualità in questo periodo.
Continuai a fare il disoccupato, poiché rinunciai al posto che avevo raggiunto vincendo il concorso. Fu una rinuncia di cui quasi non mi resi conto, avendo già dato per scontato che non avrei mai fatto quel lavoro. La disoccupazione - annotai - ha origini di natura soggettiva, paradossalmente. Quando il lavoro manca, non è vero che l'uomo "si adatta a fare qualsiasi cosa", al contrario, egli continua a voler fare una certa cosa; cioè è ben vivo in lui lo spirito della scelta che poi è il fondamento della sua libertà, cioè, ancora della sua autentica qualifica di uomo. E' vero che mancandogli il lavoro al quale aspira, forzatamente a un certo momento farà qualunque cosa; ma la farà rimanendo interiormente disoccupato.
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