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Madame D'Ora


1881 - 28 Ottobre 1963

Dora Kallmus è stato una fotografa ritrattista e di moda, di origini ebreico-austriache, più conosciuta con il nome di  "Madame D'Ora".

Nata come Dora Philippine Kallmus a Vienna nel 1881, Dora proveniva da una famiglia di avvocati ebraici molto rispettati in città.
Nel 1905 fu stata la prima donna ad essere ammessa ai corsi di teoria presso la Versuchsanstalt Graphische Lehr-und (Istituto di Grafica). In quello stesso anno divenne membro della Società Fotografica di Vienna.
I suoi studi avanzarono presso lo studio di Nicola Perscheid a Berlino, dove presto strinse amicizia con l'assistente del suo insegnante, Arthur Benda.
Nel 1907 apre uno studio fotografico con Benda a Vienna e lo chiamò "Studio Benda-D'Ora". Il nome è stato basato su lo pseudonimo di "Madame d'Ora", che ha utilizzato professionalmente per tutto il resto della sua vita. Divenne una fotografa molto popolare tra l'aristocrazia austro-ungarico e ben presto la galleria Benda-D'Ora divenne così famosa da potersi espandere con un'altra sede a Parigi nel 1924.
Tre anni dopo lasciò Vienna per Parigi e dove lavorò per molti anni. E' qui, infatti, che la sua notorietà raggiunse i livelli internazionali, grazie alle sue fotografie quali specchio della società dell'epoca e la fotografia di moda durante il decennio 1930-1940.
I suoi soggetti preferiti furono Josephine Baker, Tamara de Lempicka, Alban Berg, Niddy Impekoven, Maurice Chevalier, Colette e tanti altri ballerini, attori, pittori e scrittori.
Quando i tedeschi invasero la Francia Dora fuggì in un convento nella campagna francese.
Ritornò a Parigi nel tardo 1946 e riaprì lo studio.
Nel 1959 fu coinvolto in un grave incidente stradale che la lasciò inferma.
Morì a Frohnleiten, Steiermark, Austria, nel 1963.


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Costruire Montmartre: le Sacré-Coeur e la Place du Tertre 1ª parte

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Stranezze di Venezia

Per chi è veneziano queste non sono affatto stranezze, ma vi mostro ugualmente tratti particolari di Venezia che, probabilmente, a un occhio distratto da tanta altra bellezza, scappano.


Il campanile mozzo della Chiesa sconsacrata di Santa Margherita, nell'omonimo campo.
Nel 1808 il campanile viene demolito perchè considerato pericolante, ma all'interno nella sala oggi adibita a sala conferenze, è possibile ammirare il campanile nelle sue vere dimensioni nella tela "L'ingresso di un piovan a Santa Margherita" del pittore Gabriele Bella.
E poi, insomma, non è proprio usuale nemmeno la Madonna murata tra due finestre di casa.


Una delle tante Madonne con ombrellino nel sestiere S. Croce


La testa di un bambino murata


Lampione di città


Campanelli
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Il Cafè Le Rat Mort


Situtato al numero 7 di Place Pigalle, il Café-Bal Le Rat Mort è, oggi, scomparso.

Quando il Cabaret Bobino scomparve eil Café du Théâtre chiuse, gli habitués di questi locali si "arrampicarono" fino alla collina di Montmatre in Place Pigalle, per frequentare questo nuovo locale, dal nome assai particolare.

I suoi frequentatori abituali furono François Coppée, Alphonse Daudet, Paul Arène, Jean du Boys. Charles Bataille, Albert Glatigny, Jean Aycard, Eugène Vermersch, uno dei capi della "Commune", Alberto Merat, Andrieux, che come Vermersch a quel tempo, era un esaltato politico, ma divenne, poi, prefetto di polizia.

Come molti altri edifici pubblici, bar e ristoranti, il Rat Mort raggiunse l'apice della sua nomea con la frequentazione di scrittori famosi.
Si dice che il Sig.Villemessant si recò in questo Café e molti visitatori corsero a vedere il famoso fondatore de "Le Figaro" che scriveva a tavolino i suoi articoli giornalistici.

Il vero nome del Cafè "Le Rat Mort" era, inizialmente, Café Pigalle situtato giusto di fronte alla Nouvelle Athènes, frequentato a sua volta, da numerosi scrittori.
Delvau Alfred e Alphonse Duchesne Castagnary erano suoi abituali della Nouvelle. Avendo avuto, un giorno, una discussione con il padrone del locale, decisero di attraversare la strada e sedersi al nuovo caffè. I dipinti non erano ancora asciutti e nella sala del primo piano si respirava un odore così sgradevole che un nuovo cliente disse "Qui c'è odore di topo morto". E il caffè fu così battezzato.
Presto l'intera banda di disertori dalla Nouvelle Athènes li ha seguiti.



Place Pigalle, al numero 7, oggi
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Willy Ronis


Parigi, 14 agosto 1910 – Parigi, 12 settembre 2009

E' stato un fotografo francese che si è dedicato alle immagini prese dal vivo (sur le vif) e in bianco e nero. Fu uno dei più importanti rappresentanti del movimento che si è chiamato la fotografia umanistica.

Willy Ronis era figlio di un emigrato ebreo di Odessa, in Ucraina, e di una pianista ebrea lituana, sfuggiti dai pogrom all'inizio del XX secolo. Melomani, si incontrarono in una compagnia di esiliati russi e si stabilirono nel IX arrondissement di Parigi. Dopo aver lavorato in un studio di fotografia famoso, il padre aprì il proprio studio sotto lo pseudonimo di Roness. Willy nacque a Parigi ai piedi della collina di Montmartre.
Nel 1929, Willy Ronis s'iscrisse alla facoltà di diritto, benché sperasse di divenire compositore. Ma, quando tornò dal servizio militare, nel 1932, il padre, assai malato, gli chiede di aiutarlo allo studio. Non si interessava molto alla fotografia convenzionale, ma si entusiamò per le mostre fotografiche. Le sue opinioni politiche lo portavano chiaramente a sinistra: fece fotografie per le manifestazioni operaie del 1934. Nel 1936, il padre morì, il studio venne venduto e la famiglia se ne andò nel XI arrondissement di Parigi.
Da questo momento, si dedicò al reportage. Con il sviluppo del movimento del Fronte popolare, ideali comuni accomunavano Ronis a Robert Capa ed a David «Chim» Seymour, fotografi allora già famosi. Incontrò anche Kertész, Brassaï e Cartier-Bresson. Ma, in confronto alla visione di quest'ultimi, Willy Ronis sviluppò una vera originalità, segnata dall'attenzione portata all'«armonia corale dei movimenti di follia ed alla goia delle feste popolare».
Dopo la Seconda guerra mondiale, entrò nell'agenzia Rapho e, col sostegno del suo amico Roméo Martinez, collaborò alle riviste Regards, Time e Life.
Belleville-Ménilmontant, Sur le fil du hasard e Mon Paris sono fra i libri più importanti pubblicati da Ronis. Si è detto che era, con Robert Doisneau e Édouard Boubat, «uno dei fotografi maggiori di questa scuola francese del dopo guerra che ha saputo conciliare con ingegno i valori umanistici e le esigenze estetiche del realismo poetico». Partecipò negli anni 1950 al Groupe des XV, ai fianchi di Robert Doisneau, Pierre Jahan o René-Jacques, per difendere la fotografia come vera espressione artistica.Nel 1953 Edward Steichen, Robert Doisneau, Izis e Brassaï, per una esibizione al Museum of Modern Art di New York intitolata "Five French Photographers". Nel 1957 ottiene la biennale di Venezia lo selezionò, insieme a Henri Cartier-Bresson, gli conferisce la medaglia d'oro.
Negli anni 1970-1980, in parallelo alle sue attività di fotografo, dedicò gran parte del proprio tempo all'insegnamento: alla Scuola di Arte di Avignone, poi alle facoltà di Aix-en-Provence e di Marsiglia, dove creò un corso di storia della fotografia. Nel 1972, si sistemò a L'Isle-sur-la-Sorgue (nel dipartimento della Valchiusa).
Nel 1983, seguendo i consigli di Guy Le Querrec, Claude Nori pubblicò la sua prima monografia Sur le fil du hasard, opera che otterrà il premio Nadar e che l'incoraggierà a tornare sulla scena per nuovi progetti.
In questo stesso 1983, ha fatto dono della sua opera allo Stato francese.
Nel 2001, creò la sua ultima serie di fotografie.
Oggi, l'opera di Willy Ronis è esposta nel mondo intero e le sue immagini figurano nelle collezioni più famose dei più grandi musei.
Morì nella notte tra l'11 e il 12 settembre 2009, all'età di 99 anni

http://it.wikipedia.org/wiki/Willy_Ronis



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Chi è?


Non so chi è questo signore. Mesi fa mi sono salvata la sua foto nel mio computer, ma non le ho dato un riferimento e dunque ora mi trovo a non sapere chi è.
Qualcuno mi sa aiutare?

Sicuramente francese. Lo dico per certo, perchè la mia ricerca è rivolta spesso alla Francia e inoltre il piccolo pezzo di carta riporta un "Salut". Forse un fotografo fotografato da qualcun'altro? O un artista?
Lo stile è di Nadar, ma non è un suo autoritratto.

Sono settimane che cerco di ricordarmi, ma non sono arrivata a nessun risultato.
Grazie per l'aiuto.



E ora ho lo stesso quesito anche per questa foto. Ho, però, un'informazione in più: so che l'ho rinominata "Nadar", ma non riesco a trovare il riferimento per capire chi sia ritratto.

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Autoritratti con tavolozze 3ª parte

Terza parte della collezione Autoritratti con tavolozza, o pennelli di artisti conosciuti.


Francesco Hayez - Autoritratto, 1860


Arnold Böcklin - Autoritratto, 1872


Giorgio Morandi - Autoritratto, 1925


Alberto Giacometti - Autoritratto


Balthus - Autoritratto con pennello, 1940


Fernando Botero - Autoritratto
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Autoritratti con tavolozze e pennelli 2ª parte

Seconda parte della collezione Autoritratti con tavolozza, o pennelli di artisti conosciuti. 


Annibale Carracci - Autoritratto con tavolozza, 1583


Judith Leyster - Autoritratto con cavalletto, ca. 1635


Gaspare Landi - Autoritratto, 1779


Giovanni Fattori - Autoritratto, 1854
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Autoritratti con tavolozze e pennelli 1ª parte

Inizio sempre nuove collezioni.
Questa è quella degli Autoritratti con tavolozza, o pennelli di artisti conosciuti.

Eccone qui alcuni.


Sofonisba Anguissola - Ritratto al cavalletto, 1556


Rembrandt Harmenszoon van Rijn - Autoritratto con tavolozza e pennelli, 1665


Francisco Goya - Autoritratto nella bottega, 1766


Jean Frédéric Bazille - Autoritratto con tavolozza, 1865


Edouard Manet - Autoritratto con tavolozza, 1879


Vasily Kandisky - Autoritratto con tavolozza, 1884


Vincent  Van Gogh - Autoritratto come artista, 1887-88


Anna Bilińska-Bohdanowicz - Autoritratto con pennelli, 1887


Vincent Van Gogh - Autoritratto con tavolozza, 1889


Pablo Picasso - Autoritratto con tavolozza, 1906


Marc Chagall - Autoritratto con pennelli, 1909


Amedeo Modigliani - Autoritratto, 1919


Suzanne Valadon - Ritratto del figlio Maurice Utrillo, 1921


Frida Kahlo - Autoritratto con il Dottor Farril, 1951
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Colori consigliati per le varie tecniche pittoriche, dall' "Abecedario pittorico" di Maria Bazzi


Questo breve capitolo è molto interessante. Si consigliano, a seconda della tecnica scelta, i colori-base da acquistare.


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"Venezia è un pesce" di Tiziano Scarpa


Riporto qui di seguito un breve stralcio dal libro "Venezia è un pesce" di Tiziano Scarpa (1ª edizione, del 2000, Universale Economica Feltrinelli); un bel volume, simpatico e davvero reale per chi ha abitato, almeno un po', a Venezia.


    Venezia è un pesce. Guardala su una carta geografica. Assomiglia a una sogliola colossale distesa sul fondo. Come mai questo animale prodigioso ha risalito l’Adriatico ed è venuto a rintanarsi proprio qui? Poteva scorrazzare ancora, fare scalo un po' dappertutto, secondo l’estro; migrare, viaggiare, spassarsela come le è sempre piaciuto: questo fine settimana in Dalmazia, dopodomani a Istanbul, l' estate prossima a Cipro. Se si è ancorata da queste parti, un motivo ci deve essere. I salmoni si sfiancano controcorrente, si arrampicano sulle cascate per andare a fare l’amore in montagna. Balene, sirene e polene vanno a morire nel mar dei Sargassi.
    Gli altri libri sorriderebbero di quello che ti sto dicendo. Ti raccontano la nascita dal nulla della città, la sua strepitosa fortuna commerciale e militare, la decadenza: fiabe. Non è così, credimi. Venezia è sempre esistita come la vedi, o quasi. E’ dalla notte dei tempi che naviga; ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a tutte le rive, le banchine, gli approdi: sulle squame le sono rimaste attaccate madreperle mediorientali, sabbia fenicia trasparente, molluschi greci, alghe bizantine. Un giorno però ha sentito tutto il gravame di queste scaglie, questi granelli e schegge accumulati sulla pelle un poco per volta; si è resa conto delle incrostazioni che si stava portando addosso. Le sue pinne sono diventate troppo pesanti per sgusciare fra le correnti. Ha deciso di risalire una volta per tutte in una delle insenature più a nord del Mediterraneo, la più tranquilla, la più riparata, e di riposare qui.
    Sulla cartina geografica, il ponte che la collega alla terraferma assomiglia a una lenza: sembra che Venezia abbia abboccato all’amo. E’ legata a doppio filo: binario d’acciaio e fettuccia d’asfalto; ma questo è successo dopo, soltanto un centinaio di anni fa. Abbiamo avuto paura che un giorno Venezia potesse cambiare idea e ripartire; l’abbiamo allacciata alla laguna perché non le saltasse in mente di salpare di nuovo e andarsene lontano, questa volta per sempre. Agli altri diciamo che l’abbiamo fatto per proteggerla, perché dopo tutti questi anni di ormeggio non è più abituata a nuotare: la catturerebbero subito, finirebbe di sicuro su qualche baleniera giapponese; la esporrebbero in un acquario a Disneyland. La verità è che non possiamo più fare a meno di lei. Siamo gelosi. Anche sadici e violenti, se si tratta di trattenere chi si ama. Abbiamo fatto di peggio che legarla alla terraferma: l’abbiamo letteralmente inchiodata al fondale.
    C’è un romanzo di Bohumil Hrabal dove un bambino ha l’ossessione dei chiodi. Li pianta solo sui pavimenti: a casa, in albergo, dagli ospiti. Tutti i parquet di legno che gli capitano a tiro vengono martellati dalla mattina alla sera. Come se il bambino volesse fissare le case al terreno, per sentirsi più sicuro. Venezia è fatta così; solo che i chiodi non sono di ferro ma di legno, e sono enormi, da due a dieci metri di lunghezza, con un diametro di venti, trenta centimetri. Sono piantati nella melma del fondale.
    Questi palazzi che vedi, le architetture di marmo, le case di mattoni non si potevano costruire sull’acqua, sarebbero sprofondate nel fango. Come si fa a gettare fondamenta solide sulla melma? I veneziani hanno conficcato nella laguna centinaia di migliaia, milioni di pali. Sotto la basilica della Salute ce ne sono almeno centomila; anche ai piedi del ponte di Rialto, per contenere la spinta dell’arco di pietra. La basilica di san Marco poggia su zatteroni di rovere, sostenuti da una palafitta d’olmo. I tronchi se li sono procurati nei boschi del Cadore, sulle Alpi venete; li hanno fatti scendere fino alla laguna lasciandoli galleggiare lungo i fiumi, sul Piave. Ci sono larici, olmi, ontani, querce, pini, roveri. La Serenissima è stata molto accorta, ha avuto sempre un occhio di riguardo per questo patrimonio di legno; leggi molto severe salvaguardavano le foreste.
     Alberi capofitti a testa in giù, piantati con una specie di incudine tirata su a forza di carrucole. Ho fatto in tempo a vederli, da bambino: ho sentito le canzoni degli operai battipalo ritmate dalle percussioni lente e poderose di quei magli sospesi per aria, a forma di cilindro, che scorrevano su rotaie verticali, in piedi, salivano piano, si abbattevano di schianto. I tronchi si sono mineralizzati proprio grazie al fango, che li ha avvolti nella sua guaina protettiva, ha impedito che marcissero a contatto con l’ossigeno: in apnea per secoli, il legno si è trasformato quasi in pietra.
    Stai camminando sopra una sterminata foresta capovolta, stai passeggiando sopra un incredibile bosco alla rovescia. Sembra l’invenzione di un mediocre scrittore di fantascienza, invece è vero. Ti descrivo che cosa succede al tuo corpo a Venezia, a cominciare dai piedi.

Nel settembre 2006, il Teatro Aurora di Marghera ha programmato un convegno dal titolo "Venezia NON è un pesce", dal simpatico logo che riporto qui sotto.
Potete saperne di più visitando il link "Questa nave" .



Nel settembre 2010, i Magazzini del Sale, Magazzino Gardini, è stata ospitata una personale di Marillina Fortuna che, attraverso l'assemblaggio di rifiuti più svariati, ha ripercorso l'identità della città come una meta di viaggio piena di contraddizioni.

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