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"Venezia è un pesce" di Tiziano Scarpa


Riporto qui di seguito un breve stralcio dal libro "Venezia è un pesce" di Tiziano Scarpa (1ª edizione, del 2000, Universale Economica Feltrinelli); un bel volume, simpatico e davvero reale per chi ha abitato, almeno un po', a Venezia.


    Venezia è un pesce. Guardala su una carta geografica. Assomiglia a una sogliola colossale distesa sul fondo. Come mai questo animale prodigioso ha risalito l’Adriatico ed è venuto a rintanarsi proprio qui? Poteva scorrazzare ancora, fare scalo un po' dappertutto, secondo l’estro; migrare, viaggiare, spassarsela come le è sempre piaciuto: questo fine settimana in Dalmazia, dopodomani a Istanbul, l' estate prossima a Cipro. Se si è ancorata da queste parti, un motivo ci deve essere. I salmoni si sfiancano controcorrente, si arrampicano sulle cascate per andare a fare l’amore in montagna. Balene, sirene e polene vanno a morire nel mar dei Sargassi.
    Gli altri libri sorriderebbero di quello che ti sto dicendo. Ti raccontano la nascita dal nulla della città, la sua strepitosa fortuna commerciale e militare, la decadenza: fiabe. Non è così, credimi. Venezia è sempre esistita come la vedi, o quasi. E’ dalla notte dei tempi che naviga; ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a tutte le rive, le banchine, gli approdi: sulle squame le sono rimaste attaccate madreperle mediorientali, sabbia fenicia trasparente, molluschi greci, alghe bizantine. Un giorno però ha sentito tutto il gravame di queste scaglie, questi granelli e schegge accumulati sulla pelle un poco per volta; si è resa conto delle incrostazioni che si stava portando addosso. Le sue pinne sono diventate troppo pesanti per sgusciare fra le correnti. Ha deciso di risalire una volta per tutte in una delle insenature più a nord del Mediterraneo, la più tranquilla, la più riparata, e di riposare qui.
    Sulla cartina geografica, il ponte che la collega alla terraferma assomiglia a una lenza: sembra che Venezia abbia abboccato all’amo. E’ legata a doppio filo: binario d’acciaio e fettuccia d’asfalto; ma questo è successo dopo, soltanto un centinaio di anni fa. Abbiamo avuto paura che un giorno Venezia potesse cambiare idea e ripartire; l’abbiamo allacciata alla laguna perché non le saltasse in mente di salpare di nuovo e andarsene lontano, questa volta per sempre. Agli altri diciamo che l’abbiamo fatto per proteggerla, perché dopo tutti questi anni di ormeggio non è più abituata a nuotare: la catturerebbero subito, finirebbe di sicuro su qualche baleniera giapponese; la esporrebbero in un acquario a Disneyland. La verità è che non possiamo più fare a meno di lei. Siamo gelosi. Anche sadici e violenti, se si tratta di trattenere chi si ama. Abbiamo fatto di peggio che legarla alla terraferma: l’abbiamo letteralmente inchiodata al fondale.
    C’è un romanzo di Bohumil Hrabal dove un bambino ha l’ossessione dei chiodi. Li pianta solo sui pavimenti: a casa, in albergo, dagli ospiti. Tutti i parquet di legno che gli capitano a tiro vengono martellati dalla mattina alla sera. Come se il bambino volesse fissare le case al terreno, per sentirsi più sicuro. Venezia è fatta così; solo che i chiodi non sono di ferro ma di legno, e sono enormi, da due a dieci metri di lunghezza, con un diametro di venti, trenta centimetri. Sono piantati nella melma del fondale.
    Questi palazzi che vedi, le architetture di marmo, le case di mattoni non si potevano costruire sull’acqua, sarebbero sprofondate nel fango. Come si fa a gettare fondamenta solide sulla melma? I veneziani hanno conficcato nella laguna centinaia di migliaia, milioni di pali. Sotto la basilica della Salute ce ne sono almeno centomila; anche ai piedi del ponte di Rialto, per contenere la spinta dell’arco di pietra. La basilica di san Marco poggia su zatteroni di rovere, sostenuti da una palafitta d’olmo. I tronchi se li sono procurati nei boschi del Cadore, sulle Alpi venete; li hanno fatti scendere fino alla laguna lasciandoli galleggiare lungo i fiumi, sul Piave. Ci sono larici, olmi, ontani, querce, pini, roveri. La Serenissima è stata molto accorta, ha avuto sempre un occhio di riguardo per questo patrimonio di legno; leggi molto severe salvaguardavano le foreste.
     Alberi capofitti a testa in giù, piantati con una specie di incudine tirata su a forza di carrucole. Ho fatto in tempo a vederli, da bambino: ho sentito le canzoni degli operai battipalo ritmate dalle percussioni lente e poderose di quei magli sospesi per aria, a forma di cilindro, che scorrevano su rotaie verticali, in piedi, salivano piano, si abbattevano di schianto. I tronchi si sono mineralizzati proprio grazie al fango, che li ha avvolti nella sua guaina protettiva, ha impedito che marcissero a contatto con l’ossigeno: in apnea per secoli, il legno si è trasformato quasi in pietra.
    Stai camminando sopra una sterminata foresta capovolta, stai passeggiando sopra un incredibile bosco alla rovescia. Sembra l’invenzione di un mediocre scrittore di fantascienza, invece è vero. Ti descrivo che cosa succede al tuo corpo a Venezia, a cominciare dai piedi.

Nel settembre 2006, il Teatro Aurora di Marghera ha programmato un convegno dal titolo "Venezia NON è un pesce", dal simpatico logo che riporto qui sotto.
Potete saperne di più visitando il link "Questa nave" .



Nel settembre 2010, i Magazzini del Sale, Magazzino Gardini, è stata ospitata una personale di Marillina Fortuna che, attraverso l'assemblaggio di rifiuti più svariati, ha ripercorso l'identità della città come una meta di viaggio piena di contraddizioni.

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